“Non erano passati ancora molti giorni, che la pestilenza cominciò a sorgere in Atene; si dice che esse anche prima fosse scoppiata in molte località, a Lemno e in altri paesi, tuttavia un tale contagio e una tale strage non erano avvenuti in nessun luogo a memoria d’uomo. Non bastavano a fronteggiarla neppure i medici, i quali non conoscendo il male, lo trattavano per la prima volta; anzi loro stessi morivano più degli altri, accostandosi al malato, e nessuna arte umana bastava contro la pestilenza”
Questa è la descrizione dello storico Tucidide sul flagello che funestò la polis di Atena; descrizione senz’altro veritiera “giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati”. La malattia scoppiò all’inizio della Guerra del Peloponneso, la poderosa guerra mondiale dei Greci. Mai nella storia le due città rivali, sia nella potenza che nell’ideologia di vivere, Sparta e Atene, si trovarono così all’apice della loro forza. L’una fulgida nell’oro e nei numerosi artisti, Atene, l’altra nel pieno della sua forza militare, Sparta, trovarono nel 431 a.C. l’ultimo casus belli per far scoppiare la guerra. Atene era immensamente superiore a Sparta. Leader della Lega Delio-Attica, con una disponibilità poderosa di denaro, con a capo l’uomo più grande che la cultura greca avesse mai partorito. Pericle. Eletto per più di venti anni stratega (capo dell’esercito), pianificò la guerra di Atene.
Nessuno scontro di terra, dove Sparta e gli alleati avevano una marcata superiorità, ma una guerra navale, orientata a bloccare i porti spartani, così da ridurre alla fame la popolazione e chiedere una capitolazione totale. Questo voleva dire rinchiudere l’intera popolazione nella città, dietro le mura. 300’000 uomini ammassati in primavera ed estate in una città.
La guerra è però un mostro a tre teste non così facile da fronteggiare. Scoppiò una peste violenta. La popolazione ammassata, il caldo torrido estivo, lo scarso igiene fecero il resto. La mortalità fu spaventosa. Pericle, il Re non coronato di Atene, fu deposto dalla carica di stratega e messo a processo: fu chiesta la condanna a morte. In questo clima di disperazione, guerra, rabbia, odio e frustrazione, il popolo chiese la testa del leader che fino a poco tempo prima aveva reso una città modesta la più potente della Grecia intera. Tucidide racconta l’episodio nella sua opera.
“I cittadini, da ogni parte pieni di incertezza sulle loro decisioni, assalirono Pericle. Egli, vedendoli infuriare per la situazione in cui erano, e vedendo che facevano tutto quello che si era aspettato, convocò l’assemblea. Presentandosi così parlò: Mi aspettavo che la vostra collera sarebbe ricaduta su di me, e per questo ho convocato l’assemblea. Proposi l’entrata in guerra: insieme la votammo. Ora colpiti dalle sventure che si abbattono sulle nostre case, abbandonate la salvezza comune (della città) e accusate solo me, che vi ho spinto in guerra — ma dovete accusarvi voi stessi, giacché insieme a me l’avete votata. Eppure vi adirate con me, che sono uomo più d’ogni altro capace a prendere le decisioni giuste per tutti, e non solo sono in grado di prenderle, ma sò spiegarvele e farle votare. Infatti chi prende buone decisioni ma non le sa esporre, è alla pari di chi non ci ha mai pensato. E voi non lasciatevi ingannare da simili cittadini! La guerra era nelle nostre mani, ma è arrivata la pestilenza. E so che proprio per questo io sono odiato da voi — a torto, a meno che voi non mi amiate per eventi inaspettati che ci portarono al successo. Non chiedete la pace cittadini, non rassegnatevi. Resistete, poiché quelli che durante le avversità meno si abbattono nello spirito e nell’azione resistono di più, e costoro sono i più forti sia tra le città che tra i privati cittadini”.
Discorso meraviglioso e degno di un uomo che non aveva paura del popolo ma gli teneva testa. Non se lo ingraziava con lodi biasimevoli, ma lo rimproverava. I cittadini però, come è normale che fosse, lo deposero dalla carica e lo multarono. Non si sognarono di condannare a morte il migliore di Atene. Infatti, come anche Tucidide racconta con un velo di malinconia, “poco dopo, come di solito fa il popolo, lo rielessero, perché adattissimo ai bisogni della città”. Pericle continuò la sua guerra, capo di uno stato attaccato da ogni lato, assediato nella sua stessa terra, con una città in quarantena falcidiata dalla peste. Sopravvisse solo due anni e sei mesi dall’inizio della guerra. Morì di peste, come la donna da lui amata e il primogenito. Come spesso accadeva agli aristocratici del mondo antico, era tra i primi a prendersi i rischi della guerra. La peste era uno di quelli. Uomo potente per dignità e per senno, incorruttibile al denaro, dirigeva il popolo senza limitarne le libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse.
Egli consegnò Atene più grande di quanto mai fosse stata e sarà mai ai concittadini. In cambio questi, ingannati e corrotti da uomini infidi nascosti nell’ombra, condannarono a morte sia il nipote che il figlio minore. Entrambi vittoriosi a capo della potente flotta ateniese. Il primo, geniale come lo zio ma di tempra morale molto inferiore, scappò dalla città che lo crebbe, la tradì come un amante si vendica dopo esser stato tradito, tornò trionfante, e riabbandonò la città nel silenzio generale. Il secondo, degno figlio del padre, vinse una battaglia disperata contro la flotta spartana. Tornato in patria, fu messo a morte per non aver raccolto i naufraghi durante una tempesta, in un processo squallido e inquietante, fatto di manipolazione dell’opinione pubblica di cui anche la nostra era non è immune.
L’ha ripubblicato su Alchimie.
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