La congiura di Catilina: cronaca di una vicenda terribile

Lucio Sergio Catilina, rampollo di una ricca famiglia e esponente della “meglio gioventù” romana del I secolo a.C., è conosciuto dalla maggioranza degli studenti, e non, per la congiura che portò il suo nome. A seguito della denuncia di Cicerone, scappò in Etruria (“esilio volontario”) e radunò un esercito. Fu sconfitto, perendo nella battaglia. La sua testa fu portata a Roma; ma fu realmente colpevole di aver ordito una congiura, della quale non sono stati neanche definiti i reali capi d’accusa, per sovvertire l’ordine dell’ormai morente Res Publica?

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“Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque”. (Sallustio)

Partiamo dalle prime fasi. Catilina partecipò sin da giovane alla vita militare della Repubblica. Il periodo era tra i più violenti: Silla si apprestava a sconfiggere Mario. In questo periodo Catilina conobbe sicuramente Cesare e Pompeo. Dopo anni di incarichi, tra cui il governatorato dell’Africa nel 67 a.C., provincia strategica e fondamentale per la sopravvivenza alimentare di Roma, nel 66 a.C. Catilina si candidò a console per l’anno 65 a.C., iniziando una pomposa campagna elettorale per risultare eletto. Fu accusato di molteplici reati che minarono la possibilità di vittoria. Dopo essersi difeso e esser stato scagionato da tutte le accuse, si ricandidò nel 64 a.C. per l’anno 63 a.C., ma il suo competitor fu un brillante avvocato, Marco Tullio Cicerone. Catilina per la seconda volta perse le elezioni.

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Per la terza volta Catilina non si arrese. Si ricandidò nel 63 a.C., anno del consolato di Cicerone, per l’anno 62 a.C., promettendo la redistribuzione di terre presso la plebe. Nel pieno della campagna elettorale, con il Senato schierato ferocemente contro Catilina, in un paese fuori Roma, a circa 30 km di distanza, nasceva a Velletri Gaio Ottavio, nipote di Gaio Giulio Cesare.

Catilina venne nuovamente sconfitto. Fu eletto il protetto del Senato, Murena (solo io trovo questo nome di un coatto assurdo? Er Murena Console!), ma da parte di altri candidati e di Catone Uticense, uomo notoriamente avverso a Catilina, furono denunciati brogli elettorali. In questa situazione, con un accusa di broglio elettorale, Cicerone difese la regolarità delle elezioni e accusò Catilina, uomo che non si era lamentato, almeno ufficialmente, dei brogli. Quindi sconfitto, senza aver chiesto un riconteggio, Catilina fu accusato dal console uscente, Marco Tullio Cicerone, uomo che decreterà, grazie alle sue orazioni, forse, la successiva fuga e uccisione di Catilina, senza prove. Tutto davvero inquietante.

Curiosità: sono state ritrovate a Roma due coppette, probabilmente autentiche, con messaggi elettorali, oggi conservate al Museo Nazionale Romano sede Terme di Diocleziano. Una di queste recita:

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sufragatur.

Cassio Longino supporta Catilina alle elezioni. Oggetti molto simili ai gadget o manifesti elettorali odierni, per esempio nella scorsa elezione a sindaco di Roma.

Manifesto preso da google a solo scopo comparativo.

Manifesto elettorale delle scorse elezioni a sindaco di Roma

Letteratura e centri di potere nell’Impero Romano: il principato giulio-claudio

Il mondo della letteratura latina della prima metà del I secolo d.C. si scontra inevitabilmente con l’età d’oro di Augusto e di Mecenate. Questo periodo fu caratterizzato da un programma culturale ben definito, al quale i poeti aderivano per genuina riconoscenza a d Augusto. Egli pose fine al cruento periodo delle guerre civili, evento che dilaniò la penisola italiana e la città di Roma. Poeti come Virgilio e Orazio composero i capolavori della letteratura latina, oltre a codificare le strutture, sia nei contenuti che nella forma, dei generi letterari utilizzati. Il poema epico di rifirimento diventò l’Eneide, non più il modello greco omerico o alessandrino. La rivoluzione fu di portata epocale nel mondo romano, sempre pronto a strizzare l’occhio al mondo ellenico. 

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Ritratto di Augusto, Monaco di Baviera

La morte del padre della patria, nel 14 d.C., unitamente alla scomparsa di Mecenate, interruppe improvvisamente il connubio tra centro di potere e letteratura. Principi come Tiberio o Claudio, sebbene istruiti dai migliori maestri e tutt’altro che estranei alla poesia e letteratura, non ebbero mai l’ambizione di ricreare un programma culturale definito, anche genericamente, attorno al proprio regno. L’unico che ebbe un’attenzione particolare alle vicende culturali del proprio principato fu Nerone, ma, purtroppo per lui, gli storiografi successivi, Tacito e Svetonio in primis, dimentichi del conflitto civile, da loro mai vissuto, e avversi per motivi politici alla figura di questo imperatore, fecero un dipinto terrificante dell’ultimo principe giulio-claudio.

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Ritratto di Nerone, Musei Capitolini

Nerone tentò una rinascita della stagione classicista della letteratura e dei suoi temi, di cui ci resta ben poco, tra cui Ilias Latina, un piccolo poemetto di un migliaglio di versi esametri, che si prefiggeva di narrare le vicende omeriche, di grande fortuna nel Medioevo, dove anche letterati illustri non erano in grado di leggere il greco. L’istituzione dei Neronia, gara quinquennale di canto, fu un’altra iniziativa interessante, tenendo conto del loro carattere pubblico e spettacolare. 

Il gusto per gli agoni poetici pubblici sopravviverà a Nerone: la dinastia successiva, quella dei Flavi, farà largo uso di queste manifestazione, anche se con un indirizzo totalmente avverso a quello neroniano.

Peste ad Atene: discorso e morte di Pericle davanti al popolo intero

“Non erano passati ancora molti giorni, che la pestilenza cominciò a sorgere in Atene; si dice che esse anche prima fosse scoppiata in molte località, a Lemno e in altri paesi, tuttavia un tale contagio e una tale strage non erano avvenuti in nessun luogo a memoria d’uomo. Non bastavano a fronteggiarla neppure i medici, i quali non conoscendo il male, lo trattavano per la prima volta; anzi loro stessi morivano più degli altri, accostandosi al malato, e nessuna arte umana bastava contro la pestilenza”

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Questa è la descrizione dello storico Tucidide sul flagello che funestò la polis di Atena; descrizione senz’altro veritiera “giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati”. La malattia scoppiò all’inizio della Guerra del Peloponneso, la poderosa guerra mondiale dei flottaGreci. Mai nella storia le due città rivali, sia nella potenza che nell’ideologia di vivere, Sparta e Atene, si trovarono così all’apice della loro forza. L’una fulgida nell’oro e nei numerosi artisti, Atene, l’altra nel pieno della sua forza militare, Sparta, trovarono nel 431 a.C. l’ultimo casus belli per far scoppiare la guerra. Atene era immensamente superiore a Sparta. Leader della Lega Delio-Attica, con una disponibilità poderosa di denaro, con a capo l’uomo più grande che la cultura greca avesse mai partorito. Pericle. Eletto per più di venti anni stratega (capo dell’esercito), pianificò la guerra di Atene. spartaniNessuno scontro di terra, dove Sparta e gli alleati avevano una marcata superiorità, ma una guerra navale, orientata a bloccare i porti spartani, così da ridurre alla fame la popolazione e chiedere una capitolazione totale. Questo voleva dire rinchiudere l’intera popolazione nella città, dietro le mura. 300’000 uomini ammassati in primavera ed estate in una città.

La guerra è però un mostro a tre teste non così facile da fronteggiare. Scoppiò una peste violenta. La popolazione ammassata, il caldo torrido estivo, lo scarso igiene fecero il resto. La mortalità fu spaventosa. Pericle, il Re non coronato di Atene, fu deposto dalla carica di stratega e messo a processo: fu chiesta la condanna a morte. In questo clima di disperazione, guerra, rabbia, odio e frustrazione, il popolo chiese la testa del leader che fino a poco tempo prima aveva reso una città modesta la più potente della Grecia intera. Tucidide racconta l’episodio nella sua opera.

pericle

“I cittadini, da ogni parte pieni di incertezza sulle loro decisioni, assalirono Pericle. Egli, vedendoli infuriare per la situazione in cui erano, e vedendo che facevano tutto quello che si era aspettato, convocò l’assemblea. Presentandosi così parlò: Mi aspettavo che la vostra collera sarebbe ricaduta su di me, e per questo ho convocato l’assemblea. Proposi l’entrata in guerra: insieme la votammo. Ora colpiti dalle sventure che si abbattono sulle nostre case, abbandonate la salvezza comune (della città) e accusate solo me, che vi ho spinto in guerra — ma dovete accusarvi voi stessi, giacché insieme a me l’avete votata. Eppure vi adirate con me, che sono uomo più d’ogni altro capace a prendere le decisioni giuste per tutti, e non solo sono in grado di prenderle, ma sò spiegarvele e farle votare. Infatti chi prende buone decisioni ma non le sa esporre, è alla pari di chi non ci ha mai pensato. E voi non lasciatevi ingannare da simili cittadini! La guerra era nelle nostre mani, ma è arrivata la pestilenza. E so che proprio per questo io sono odiato da voi — a torto, a meno che voi non mi amiate per eventi inaspettati che ci portarono al successo. Non chiedete la pace cittadini, non rassegnatevi. Resistete, poiché quelli che durante le avversità meno si abbattono nello spirito e nell’azione resistono di più, e costoro sono i più forti sia tra le città che tra i privati cittadini”.

Discorso meraviglioso e degno di un uomo che non aveva paura del popolo ma gli teneva testa. Non se lo ingraziava con lodi biasimevoli, ma lo rimproverava. I cittadini però, come è normale che fosse, lo deposero dalla carica e lo multarono. Non si sognarono di condannare a morte il migliore di Atene. Infatti, come anche Tucidide racconta con un velo di malinconia, “poco dopo, come di solito fa il popolo, lo rielessero, perché adattissimo ai bisogni della città”. Pericle continuò la sua guerra, capo di uno stato attaccato da ogni lato, assediato nella sua stessa terra, con una città in quarantena falcidiata dalla peste. Sopravvisse solo due anni e sei mesi dall’inizio della guerra. Morì di peste, come la donna da lui amata e il primogenito. Come spesso accadeva agli aristocratici del mondo antico, era tra i primi a prendersi i rischi della guerra. La peste era uno di quelli. Uomo potente per dignità e per senno, incorruttibile al denaro, dirigeva il popolo senza limitarne le libertà, e non era da lui condotto più di quanto egli stesso non lo conducesse.

Egli consegnò Atene più grande di quanto mai fosse stata e sarà mai ai concittadini. In cambio questi, ingannati e corrotti da uomini infidi nascosti nell’ombra, condannarono a morte sia il nipote che il figlio minore. Entrambi vittoriosi a capo della potente flotta ateniese. Il primo, geniale come lo zio ma di tempra morale molto inferiore, scappò dalla città che lo crebbe, la tradì come un amante si vendica dopo esser stato tradito, tornò trionfante, e riabbandonò la città nel silenzio generale. Il secondo, degno figlio del padre, vinse una battaglia disperata contro la flotta spartana. Tornato in patria, fu messo a morte per non aver raccolto i naufraghi durante una tempesta, in un processo squallido e inquietante, fatto di manipolazione dell’opinione pubblica di cui anche la nostra era non è immune.

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Milano, capitale d’Occidente: tra Etruschi e Tetrarchia

Il Cactus Rosso viaggia verso Milano in questo articolo, per motivi di salute, e coglie l’occasione per visitare il Museo Archeologico di Milano, dato che è attiva una mostra sugli etruschi, intitolata: “Il viaggio della Chimera”. Ovviamente, da etruscologo quale sono, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione, e poco prima della visita, mi sono scapicollato verso il museo.

Lo ammetto, venendo da Roma e dal Lazio, mi sono presentato prevenuto, come un aristocratico che scende nei quartieri borghesi, e presta attenzione anche solo a sfiorare qualcosa e qualcuno. Chi ha vissuto fisicamente nella città eterna o ha praticamente preso la residenza a Cerveteri come me, si sente Archeologo di serie A, lo ammetto. E, per quanto riguarda la mostra sugli etruschi, avevo ragione. Non mi è piaciuta per nulla. I reperti sono disposti in modo confusionario, con un filo logico che per me, laureando magistrale in Etruscologia, è stato difficile percepire. Inoltre il nome “il viaggio della Chimera”, vista l’esposizione dei pezzi, non ha senso. Detto questo, la mostra è da visitare per i seguenti motivi:

La sezione “bestiario orientalizzante” è davvero notevole, con reperti di una bellezza sconvolgente; antefissaalcune antefisse sono meravigliose, variopinte e illuminate da una luce che le valorizza (manco a dirlo, provenienti dall’Etruria Meridionale;); inoltre ci sono dei reperti che, personalmente, sono tra i più affascinanti del mondo occidentale. Parlo del gruppo di bronzi dal deposito votivo del tempio Beta di Tarquinia, composto da lituo, scudo e scure defunzionalizzati. Personalmente mi sono emozionato come mai prima nel vederli dal vivo. Il fato ha punito la mia ubris, mostrandomi quanto ancora avessi da scoprire e viaggiare, alla faccia dell’archeologo di serie A. Questi reperti sono esattamente gli stessi descritti da Livio nella sua storia, quando il Re Tarquinio Prisco, dopo aver inaugurato il tempio di Giove Ottimo Massimo, offre una scure, un lituo e uno scudo al Dio.tempio beta

 

Questi davanti ai miei occhi sono oggetti che non solo rappresentano una parte importante della storia della mia città, Roma, ma soprattutto testimoniano gli usi scure“monarchici” della cultura etrusca, provenendo da Tarquinia. Ormai pleonastico sottolineare che anche Tarquinio Prisco, primo re Etrusco di Roma, provenisse da Tarquinia. Insomma, a Milano ho trovato una testimonianza unica della fase monarchica di Roma!

 

 

Quindi bocciata, a parere personale la mostra, ma promossi i pezzi esposti. Ora però arriva l’ennesima sorpresa. Nonostante avessi sostenuto ben due esami di età tetrarchica Massimiano(mi affascina, anche se sono etruscologo), mi ero dimenticato che nel museo di Milano ci fosse il cosiddetto ritratto di Massimiano Erculeo. Il pezzo mi ha stregato. Il ritratto marmoreo suggerisce effettivamente quale uomo fosse Massimiano, Augusto d’Occidente. Il viso è severo e carismatico, solcato da delle profonde rughe, in modo quasi impressionistico, che  accentuano la forza del personaggio. Una descrizione puntuale e particolareggiata sarebbe comunque inutile. Il pezzo è da vedere, da respirare. Il resto del museo è notevole, soprattutto per quanto riguarda la parte tardoantica. Ci sono anche delle sezioni medievale e greca, che riportano alcuni reperti non banali.

 

Insomma questo viaggio d’emergenza a Milano, partito in modo scettico, si è rivelato davvero piacevole e interessante. Per chiunque passasse per l’antica capitale d’Occidente, una visita al museo è d’obbligo. Ps. Bella collezione epigrafica all’esterno.

Morte al Tiranno! Oppure no? Nascita delle Fake News ad Atene

Proseguendo la serie di articoli del Blog Cactus News sulla tirannia, siamo arrivati alla fase finale: come si uccide un tiranno… forse.

La storia di Armodio e Aristogitone è celeberrima e conosciuta in tutta l’antichità. Due ateniesi si ribellarono alla tirannia e uccisero Ipparco nel 514 a.C. che insieme al fratello Ippia deteneva il potere ad Atene. Erano chiamati “Pisistratidi”, cioè i successori di Pisistrato, il grandissimo tiranno di Atene, che molto fece per la città e per la cultura di questa,e di noi tutti (basti pensare che codificò una versione ufficiale dell’Iliade e dell’Odissea). 

Statue e gloria furono riservate ai due tirannicidi, uccisori del tiranno, torturati e gruppo dei tirannicidieliminati dal fratello superstite, Ippia. Molti in antichità, nel medioevo o in età moderna utilizzarono questo vicenda per legittimare tentativi di colpi di stato. 

Atene, una volta estirpata la tirannia di Ippia nel 510 a.C., collocò nell’agorà una statua che ritraeva i due tirannicidi nell’atto prima di sferrare il colpo mortale a Ipparco. Copie romane sono disseminate per l’Europa moderna. Per chi abbia voglia e curiosità, è consigliato un giro al Museo Archeologico di Napoli, o alla Centrale Montemartini di Roma, dove però è rimasto solo un tirannicida. 

Quindi la città, una volta cacciato il tiranno, eresse simboli che celebrarono i tirannicidi. Ma andò veramente così? Tucidide, uno storico ateneise vissuto nella seconda metà del V secolo a.C., nella sua opera, scrisse:

“ Questo è il frutto delle indagini e dello studio, cui ho sottoposto i fatti antichi: materia difficile da accertare, scrutando ogni singolo indizio e testimonianza man mano che si presentava. Poiché gli uomini in genere accolgono e tramandano fra loro, senza vagliare criticamente, anche se concernono vicende della propria terra, le memorie del passato. Ad Esempio, la gente di Atene è convinta che Ipparco sia stato assassinato da Armodio e Aristogitone mentre reggeva la tirannide, e non è al corrente che era Ippia, primogenito dei figli di Pisistrato, ad avere il potere e che Ipparco e Tessalo erano sui fratelli. In quel giorno, e mentre si accendevano all’azione, Armodio e Aristogitone furono colti dal sospetto che qualcuno del complotto li avesse denunciati a Ippia. Si tennero quindi lontani da lui. Ma desideravano di intraprendere qualche gesto esemplare, prima della cattura, e imbattutisi in Ipparco che ordinava la processione Panatenaica, lo ammazzarono.”

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Tucidide qui specifica che il tiranno era Ippia, e quindi la dicitura “Pisistratidi”, intesa come successione collegiale alla tirannia, è errata. Quindi i tirannicidi, tanto elogiati da letteratura antica e moderna, alla fine dei conti, erano due assassini del fratello del Tiranno. 

Un fatto interessantissimo è che Tucidide, che vive meno di 100 anni dopo l’uccisione di Ipparco, ci descrive come la gente di Atene fosse convinta che Ipparco avesse il potere con il fratello. Ma per quale motivo fu diffusa una notizia sbagliata, che ormai era diventata “verità” per tutti? 

Lascio a voi la risposta. Concludo dicendo.. occhio alla fake news, che “per fortuna”, non sono un’invenzione dei nostri tempi. 

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Il Grande Dionisio I, Tiranno delle Due Sicilie

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La serie di articoli dedicata alla figura tirannica nell’antichità, nata in seguito alla mostra “La Roma dei Re” ai Musei Capitolini e che si concluderà il 31 Gennaio con l’uscita del film “Il primo Re”, non poteva dimenticare l’isola Siciliana, e in particolare la città di Siracusa.

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Il tiranno di oggi è il Grande Dionisio I. In carica dal 405 a.C. al 367, questo gigante fu per molti aspetti un precursore dell’evoluzione che il mondo occidentale andava a incontrare. m procediamo con ordine. Dionisio salì in carica nel 405 a.C. Ora, la città di Siracusa resistette stoicamente a una serie di attacchi spaventosi: il primo, violento e scelerato assalto degli ateniesi alle mura di Siracusa, finito con “l’ergastolo” degli ateniesi nelle cave. Il secondo è l’attacco degli infami Cartaginesi (si, sono stati infami) ad una città già debilitata. Ma i greci resistettero. Resistettero e respinsero gli invasori. 

La città aveva resistito a due colpi mortali, era ferita ma viva. 

Dionisio serrò le fila e sistemò i problemi interni. Dopo aver messo al sicuro la città, e ancor di più il suo potere, intraprese una serie di apparenti vendette che in realtà  erano contromosse acute, programmate nella fitta strategia tessuta dal greco. Le prime che pagavano furono le colonie greche di Sicilia che si allearono con gli ateniesi. Naxos fu distrutta nel 403, mentre la maggior parte della popolazione di Catania fu fatta schiava e venduta, e l’altra metà resa succube della nuova colonia fondata da mercenari Siculi. In seconda battuta riprese la guerra contro i Cartaginesi, conclusa nel 392 a.C. a proprio favore. La città divenne potente e ricca. 

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Dionisio cominciò a ipotizzare una Siracusa grande, anzi grandissima, oltre i limiti del mare. Le politiche del tiranno per assicurarsi il sud Italia furono modernissime. Prese come sposa una nobile di Locri, sancendo un’alleanza stabile, strinse alleanza con Roma a cui vendeva il grano per foraggiare la popolosa città. Conquistò Reggio e sconfisse i potenti italici verso Crotone. Inoltre sfruttò la decadenza di Cuma, che già era avvenuta nel secolo prima, così da controllare tutte le rotte del Tirreno. Inoltre nel 387, nel corso della guerra contro “i pirati etruschi” Siracusa saccheggiò il santuario ceretano di Pyrgi, assestando un colpo micidiale all’unica città in grado di rivaleggiare con lei per potenza navale; inoltre Caere doveva fare i conti con la calata dei Galli, che Livio descrisse drammaticamente in ottica romana. 

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Nasceva uno stato greco, un “Regno delle Due Sicilie” antico e potente, con mire espansionistiche poderose. Nel 368 Dionisio era intenzionato a scacciare gli infidi cartaginesi dalla Sicilia, ma il fato volle che il 367 morì, lasciando il regno a un figlio che non seppe dimostrarsi all’altezza del padre. Il nuovo Regno delle Due Sicilie non resistette al tempo, ma lasciò in eredità un idea. L’idea di impero, l’idea di espansione a qualunque costo e con mezzi cruenti. Fu raccolta prima da un Re Macedone che di li a poco avrebbe raso al suolo Olinto e fondato un regno di 200 anni, e ai Romani, intenti nella conquista dell’Etruria, che ebbero fortuna destinata a riecheggiare nei secoli. 

La Grande Italia dei Tiranni

Terzo Capitolo della serie di articoli scritti nell’ambito della mostra

“La Roma dei Re”

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Tempio di Iuppiter Optimus Maximus

 

La felice espressione “La Grande Roma dei Tarquini“, coniata per sfatare il mito della povera e arretrata Roma dei Re, può essere utilizzata anche per altre grandi città della penisola italiana durante il periodo arcaico (600-480 a.C. circa).

 

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Cavaliere Rampin, Ippia figlio di Pisistrato?

Infatti il VI secolo a.C. fu un secolo di forti sconvolgimenti, sia fisici che politico-sociali: le colonie greche avevano ormai popolato il Sud Italia; Roma e i Latini occupavano il Lazio centrale; gli Etruschi il Lazio settentrionale e parte della Toscana e Umbria. Lo sviluppo improvviso delle città, realtà nate in Italia da poco tempo, provocarono forti squilibri sociali. Questo è il periodo della cosiddetta “riforma oplitica” e della crisi delle aristocrazie: i nobili, proprietari terrieri, non riuscivano più a contenere le proteste dei commercianti, i quali si erano arricchiti anche più di alcuni nobili, ma che non avevano accesso alle cariche pubbliche. In questo periodo di forte crisi, alcuni grandi uomini, sempre facenti parte delle aristocrazie, si fecero promotori dello scontento del popolo e di queste classi “medie”, e grazie al loro sostegno presero il potere assoluto nelle città. Nacque così  la figura del Tyrannos, il Tiranno.

 

Riformatori, committenti di grandi opere pubbliche, questi uomini presero potere in grandi città. In età arcaica i grandi tiranni dell’Italia centrale di cui abbiamo testimonianza sono tre: “I Tarquini” a Roma, ma io preferisco il solo Servio Tullio (per motivi che magari spiegherò in un altro articolo), Aristodemo a Cuma, prima colonia greca in Italia e grande porto della Campania in età arcaica, e Thefarie Velianas a Caere, l’odierna Cerveteri.

Per tutti e tre questi grandi riformatori, abbiamo testimonianza, sia archeologica che scritta, di grandi attività edilizie, con la costruzione sia di templi monumentali, sia di grandi opere pubbliche, soprattutto dal punto di vista idraulico.

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Thefarie fu attivo in modo particolare nel porto di Caere, Pyrgi. Il porto è per eccellenza il luogo della “middle class”, dei commercianti, di quei cittadini esclusi fino all’arrivo del Tiranno, e non è un caso che Thefarie si concentri proprio in questo punto. Vedere le lamine d’oro per comprendere la portata dell’intervento del tiranno.

 

Servio stesso, a Roma, si concentrò nell’area di San Omobono, nel foro boario e olitorio, “il foro degli esclusi”: la Roma “bene” andava al foro romano. Aristodemo a Cuma, oltre a vari templi, costruì mura mastodontiche (ma davvero? le mura serviane vi ricordano qualcosa?) e opere idrauliche ( vedasi sempre Roma, Cloaca Maxima).

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Mura Serviane, stazione Termini

Quali fossero i rapporti di scambio di saperi e tecnologie è complesso dirlo, ma ci si proverà, in futuro. Intanto sempre Tito Livio ci viene in soccorso sui rapporti che intercorrevano tra queste “famiglie”. Secondo lo storico il Superbo, scacciato da Roma, riparò prima a Caere, che lo allontanò in seguito, essendo alleata di Roma, e una volta sconfitto definitivamente, si rifugiò a Cuma, dove morì. Ora, sia a Caere che a Cuma noi non siamo sicuri dell’effetiva presa del potere avvenuta da Thefarie e Aristodemo. A Caere sembra improbabile, visto che le lamine sembrano parlare di un periodo vicinissimo al 500 a.C., e Tarquinio fu scacciato nel 509. Anche per Cuma la stessa situazione: Aristodemo prese il potere molto probabilmente dopo la battaglia di Aricia, nel 503, troppi anni dopo la cacciata di Tarquinio. Inoltre sullo stesso Tarquinio aleggia l’ombra dell’uccisione di Servio Tullio, vero Tiranno di Roma. Insomma la situazione è troppo complessa. Una piccola supposizione però può esser fatta: Caere non rimase neutrale nello scontro tra la Repubblica romana e Tarquinio il Superbo, con Veio e Tarquinia al seguito, per rapporti col Superbo, ma per una scelta politica,  tirannica o meno.

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Eracle e Atena, Tempio di Sant’omobono

Klimt e Schiele, Eros e Psiche. Ma anche no..

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Il 22,23,24 Ottobre in anteprima nelle sale italiane è stato proiettato il docufilm “Klimt e Schiele: Eros e Psiche.

Il momento è dei più propizi. A nostro parere, mai come in questo caso la storia dell’arte può esprimere tutto il suo valore intrinseco. Lo sfondo in cui si immergono i due artisti è lontano e spaventosamente vicino ai nostri tempi. La Vienna degli Asburgo, la città imperiale del Classico per eccellenza, si trova inerme di fronte alla modernità, e inesorabilmente ne rimane sconfitta. I giovani sono spaesati, essendo l’ultimo prodotto del vetusto impero agricolo d’Austria-Ungheria, impero che viene surclassato dalle innovazioni tecnologiche. E i giovani, davanti a tutto questo, si sentono inermi. 

Proprio come ora. “La prima rivoluzione tecnologica” ci sta colpendo. Noi italiani, soprattutto i ragazzi nati nel XX secolo, proviamo sulla nostra pelle questa incredibile contraddizione: figli di un mondo che ci ha addestrato e cresciuto a fare qualcosa che non serve più, inesorabilmente avvinghiati ad un mondo che è stato superato dalla velocità dei tempi. E in un momento in cui la storia dell’arte può incarnare e questa situazione drammatica, con i turbamenti strazianti di Schiele e l’insubordinazione di Klimt, questo docufilm fallisce. 

Noioso, senza un filo logico. Per molto tempo consistente in una carrellata di immagini di opere dei due autori, che vista la potenza del loro messaggio, riescono a incollare lo spettatore allo schermo. Una trama orribile, con momenti totali di non-sense. 200w

Il paradosso è che visti i contenuti, il tempo scorre piacevolmente. Minuti di Mozart, con sotto scene di valzer del 2018 o macchine che scorrono (WTF??), riempiono lo sala del cinema. Vale i soldi spesi? Non riesco a dire di no, ma solo per la potenza dei contenuti, non di come sono presentati. Ma una delusione vera… Un’occasione persa.  Si è persa l’occasione di dare voce a due artisti rivoluzionari a cui si dedica poco spazio anche nei libri di storia dell’arte. Nel 1893 Hugo von Hofmannsthal, scrittore viennese diceva “La gente deve ricominciare a vedere quadri, veri quadri, non oleografie dipinte a mano: deve potersi di nuovo ricordare che la loro materia è una scrittura magica che, con macchie di colore in luogo delle parole, ci trasmette una visione interiore del mondo, misterioso, arcano, meraviglioso” E’ ciò che faranno Klimt e Schiele, mostrare che la pittura ha qualcosa in comune con lo spirito, il pensiero, il sogno e la poesia. Ogni artista gustav-klimt-danae-art-poster-print_a-G-8842102-0è in cerca della proprio musa, e Klimt la trovò a Ravenna, dove rimase folgorato dai mosaici bizantini da cui trasse l’ispirazione nell’uso così massiccio dell’oro nei suoi dipinti, in questo momento aureo prevalgono le figure femminili, sensuali ed erotiche, erotismo che sarà poi ripreso dal suo allievo, Schiele. Egli rompe del tutto con la tradizione, trova nell’arte un mezzo per esprimere sé stesso, i suoi turbamenti e il malessere che contraddistingue questa epoca, realizza molteplici schiele-autoritratto-con-la-spalla-nuda-alzata1autoritratti e molti ritratti femminili, le pennellate sono feroci, veloci e taglienti. Le donne sono nude, mostrate nella loro natura, erotiche e provocanti, l’espressionismo è tale da suscitare forti sensazioni nello spettatore. Ancora oggi, Klimt, ma soprattutto Schiele sono contemporanei e all’avanguardia, perché  

«L’Arte non può essere moderna, l’Arte appartiene all’eternità.»    Egon Schiele Egon_Schiele_-_Totes_Mädchen_-_1910-1200x656

La Grande Roma dei Tarquini

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Roma ha mai avuto un Re?            

Nel periodo estivo è stata inaugurata ai musei Capitolini una mostra sulla “Roma dei Re”. Ora, tutti conosciamo la storiella sui 7 Re di Roma, a cui periodicamente se ne aggiunge un ottavo, per alcuni Totti, per i più datati Falcao;ma Roma, la città Aeterna, ha mai avuto anche solo un Re nell’antichità? Scopriamo cosa ne pensavano gli antichi a riguardo..

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo partire, neanche a dirlo, dalla Grecia. Un giorno, un aristocratico di un’antica ed eminente famiglia fu “spintaneamente” invitato a lasciare Corinto, dove i brutti e cattivi Cipselidi, altra famiglia della città, aveva preso il potere. Il nostro novello Odisseo, di nome Demarato, prese una piccola nave di legno, caricò su di essa i suoi averi e tre artigiani, e salpò per l’Italia. Dopo un lungo viaggio, passando per lo stretto siciliano e l’isola di Ischia, la nave approdò sulle coste di una terra ricca e temuta dai greci: Tarquinia.
Gli anni trascorsero tranquilli, il vecchio Demarato trovò moglie ed ebbe un figlio. Il giovane era poderoso: il mix perfetto tra l’intelligenza e la diplomazia ereditata dal sangue greco, e la forza e astuzia appresa nella maestosa etruria. Ebbe la migliore istruzione che la città poteva garantirgli, congiuntamente all’addestramento sia nell’arte che nella pratica militare, nella quale eccelleva facilmente. Egli sentiva tutto questo, e divenne ambizioso. Ambizioso di un posto prestigioso nella comunità, di una magistratura o del comando di un gruppo di uomini. Tutto questo però si scontrava con le regole della vecchia e nobile terra di Tarquinia, che prevedeva questi onori solo a un Etrusco purosangue, e non ad un figlio, rispettato certamente, ma di un commerciante greco. La morte del padre Demarato accelerò l’inevitabile, e il giovane, ormai divenuto uomo, decise d’impeto di lasciare l’Etruria per prendersi quello che la sua brama di potere richiedeva, radunando un gruppo di uomini e partendo alla conquista di una sua città, in cui avrebbe potuto veder appagate le sue ambizioni. vaso chigiL’esercito scese seguendo la linea della costa, approdò vicino Veio, attraversò un antico ponte ligneo, costruito per superare “IL” violento fiume italico, e diede battaglia alla città che incontrò. Lo scontro fu virulento ma dall’esito mai incerto. Quell’uomo, un etrusco con sangue greco, aveva finalmente conquistato con le proprie mani una città degna del suo valore: per rendere onore alla sua nuova patria abbandonò il nome etrusco. Il neo Re si chiamò Lucius, ma mantenne il ricordo della città natia, fondando la sua famiglia proprio col nome di quest’ultima.

Il nuovo Re si sarebbe chiamato Lucio Tarquinio Prisco, e la città su cui regnava era l’antica Roma, la Roma dei Re, quella che gli storici moderni soprannomineranno “La Grande Roma dei Tarquini”. La grandezza di Roma iniziò così.

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